La Pietra d'Inciampo

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    Amiche ed amici,

    diciamoci la verità: per noi Unitariani la Pasqua è una pietra di inciampo. Il nostro atteggiamento verso il religioso è di attenzione a questa realtà e Pasqua ci rimanda ad una realtà altra. Il nostro atteggiamento verso il religioso è di celebrazione di questa vita e Pasqua ci parla della morte e di una vita altra. Il nostro atteggiamento verso il religioso è di fedeltà al dato naturale e Pasqua testimonia del sovrannaturale. Ogni anno il mio invito è stato quello di non evitare o aggirare questa pietra di inciampo soprattutto di fronte al tema della morte. Perché possiamo senz'altro leggere nella Pasqua, nel suo collegamento anche alla primavera, una celebrazione della vita; e lo è! Ma non possiamo ignorare che è offrire speranza di fronte alla morte il suo tema principale. Né possiamo negare di avere bisogno anche noi di una speranza o di un senso di fronte ad un evento che è per tutti inevitabile e per tutti presente. Quest'anno il mio invito riguarda, però, piuttosto l'altro lato scomodo della questione (e solo di rimando il tema della morte): quello del sovrannaturale. Come sapete, in questo periodo sto approfondendo la c.d. "spiritualità laica", ossia l'intento di vivere una dimensione spirituale a prescindere da una qualche rivelazione storica, sulla base del dato umano e naturale. Così, quando Roberto mi ha proposto di occuparmi del sermone di Pasqua, in principio ho storto il naso e cominciato a pensare a quale scusa usare per declinare l'invito; che so, la pessima connessione qui dalla montagna o il non voler portare il PC per questi pochi giorni di vacanza. Tutto vero, ma niente di irrisolvibile. La verità è che il tema suonava scomodo e alieno rispetto alla mia attuale linea di ricerca, certamente piuttosto lontana da eccessi di metafisica e di sovrannaturale. Ma poi mi sono detto che dovevo del rispetto anche alle mie esperienze più inusuali (di cui a volte vi ho detto, tipo del mio viaggio astrale fuori dal corpo), che un tempo ho sentito forse più centrali, ma a cui voglio dare un senso anche oggi all'interno della mia spiritualità. Potremmo forse procedere come quel tizio agnostico, di cui lessi anni addietro in rete, a cui chiesero: "Ma non hai mai avuto esperienze mistiche?". Al che egli rispose: "Continuamente. Solo che non ci credo". D'altronde si tratta di esperienze personali e scarsamente riproducibili, intime e sfuggenti alla misurazione. Ma quale spreco sarebbe non dare un significato ed uno spazio nella propria visione del mondo ad esperienze così rare, profonde ed emozionanti? In fondo uno dei grandi problemi irrisolti della storia della filosofia è proprio nel dilemma tra criteri di verità, se dare preminenza al dato oggettivo in quanto misurabile o al dato soggettivo in quanto intimamente esperibile. Quindi chi o cosa ci dice che piuttosto non sia quell'esperienza mistica, così intima e diretta, ad avere i crismi di affidabilità che chiediamo alla verità? Mistico non significa, ovviamente, sovrannaturale, ma quando si vive una simile esperienza si ha anche la sensazione di partecipare ad una dimensione talmente essenziale dell'Essere da percepirla come eterna. E se da un lato i tratti della persona sembrano dissolversi al punto da apparire un'estinzione, una morte, un nirvana, allo stesso tempo la coscienza è lì presente come testimone dell'esperienza, per cui l'essenziale della persona sembra sopravvivere con quell' Eterno. Una visione riduzionista e riduttiva di tale esperienza potrebbe descriverla in termini neurologici o psicologici come una sensazione, un'impressione, un'emozione puramente soggettiva, che nulla rivela della realtà in sé. Affermare che sia ben più di questo sembra essere un atto di fede, né più, né meno dell'accettare la realtà di un qualche evento sovrannaturale. O almeno così ci suggerisce il nostro patto razionalista con la realtà. Timorosi di tradire tale patto, allora, ci limitiamo a vedere nella Pasqua la rappresentazione simbolica di un risveglio della coscienza di fronte alla realtà dei fatti (la vita e la morte come evidenze). In questa Pasqua simbolica e primaverile, realtà fattuale e realtà della coscienza si riconciliano tra loro l'una mostrando la sua vitalità creativa, l'altra aprendosi al dono della prima scevra da pretese e condizionamenti. Ma se questo aspetto è senz'altro presente nella simbologia di vita della Pasqua, non coglie appieno, anzi rischia di eluderlo, il tema della morte e resurrezione. Non c'è, però, bisogno di virare a 360 gradi verso il sovrannaturale per affrontare anche questo lato razionalmente scomodo della Pasqua. In fondo molte tradizioni collegano l'esperienza mistica dell'Assoluto tanto con la realizzazione autentica della coscienza quanto con il conseguimento della propria idea di salvezza. Così per i buddisti "il Nirvana è uno stato in cui si scopre l'identità del proprio vero sé con l'assoluto in opposizione al continuo dimorare ostentato dell'artificiale sé. È anche descritto come la beatitudine del liberare la propria pura natura primordiale dagli aggregati impuri transitori". Per gli induisti l'esperienza dell'Assoluto è unità di Atman (anima individuale) e Brahman (anima cosmica), superamento della dualità tra soggetto ed oggetto nel Sat-Chit-Ananda, ovvero unità di Essere, Coscienza e Beatitudine. Per il Taoismo è la realizzazione in sé di un "vuoto" di forme e di determinazioni, che è al contempo un "pieno" di energie vitali e creative; è, quindi, anche il culmine del processo alchemico, che garantisce l'immortalità, la co-eternità del principio vitale e cosciente con il Tao. Quello che voglio evidenziare è questo: in molte tradizioni la realizzazione ultima ed autentica si dà in rapporto ad un Assoluto, che dà un lato ci costringe a trascendere l'elemento personale, con diversità di gradazione dall'apertura al Totalmente Altro del teismo al limite dell'estinzione del Nirvana buddista, dall'altro ci rende partecipi e coscienti dell'essenza dell'Assoluto e, quindi, ci apre ad una prospettiva di sopravvivenza di una qualche essenza di noi nella partecipazione all'Eterno.
    Questo non significa affatto che siamo certi di una vita dopo la morte o di una qualche resurrezione. Il senso profondo dell'esperienza mistica dell'Assoluto è e rimane metterci in connessione con un fondamento dell'essere talmente spoglio di ogni possibilità di rappresentazione e determinazione, ma allo stesso tempo (e forse per questo) così aperto alla possibilità, da aprirci alla prospettiva esistenziale della speranza ed etica della gratuità. Si tratta di una forma di conoscenza che può affiancarsi all'episteme scientifica? Forse no, perché ad essa manca la forza di un criterio di controllabilità come il principio di falsificazione. Però si tratta perlomeno di una via alla "comprensione". Perché alla ragione dialogica tutto ciò appare come un ossimoro assurdo di opposti inconciliabili, che l'esperienza è, invece, in grado, appunto, di comprendere per via di una partecipazione diretta, di immedesimazione in uno stato. Il primo senso della resurrezione è, quindi, senz'altro quello di un dato sapienziale che apre ad una pienezza di vita. In questo senso, il ruolo dell'esperienza mistica, per quanto possa apparire eccezionale, se non addirittura sovrannaturale, è quindi perfettamente integrabile in una spiritualità naturale. Allo stesso tempo l'esperienza mistica rimanda ad una possibilità, cui credere o meno o forse soltanto sperare, ma resa, se non plausibile, quantomeno non più astratta dai contenuti stessi dell'esperienza. E, cioè, la possibilità e la speranza che quella partecipazione all'essenza delle cose si protragga nell'Eterno, oltre i limiti di questa temporanea esistenza corporea. Rimuovendo il masso che chiude il sepolcro delle nostre paure ci apriamo alla pienezza della vita presente, ma nulla impedisce di leggere in essa il segno di una partecipazione ad una vita eterna. Senza lasciarci ripiombare dalla paura del sovrannaturale nel buio del nostro sepolcro.

    Buona Pasqua a tutti.
     
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